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Baby pensioni: costano miliardi ogni anno

Le baby pensioni, intese per tali quelle liquidate fino alla prima metà degli anni Novanta, ci costano 7 miliardi l’anno. Un pesante carico sui conti dello Stato e un ostacolo che impedisce all’esecutivo di attuare una profonda e libera riforma del sistema pensionistico. 

Baby pensioni: come funzionavano

Sull’onda della veloce crescita del benessere in Italia, del boom demografico e dell’espansione economica negli anni Settanta e Ottanta fu concepito il sistema. Introdotto nel 1973, permetteva ai tempi di Bettino Craxi di andare in pensione con 19 anni, 6 mesi e 1 giorno di attività lavorativa. 

Ma negli anni Settanta perfino con soli 9 anni, 6 mesi e 1 giorno. La classe politica prometteva pensioni in cambio di voti. E fu così che il debito lievitò dal 40 al 125 per cento del Pil nel giro di 25 anni. Ciò fino a quando il governo Dini non intervenne nel 1995 a fermare tutto per evitare di mandare il Paese in bancarotta. 

Errori tuttora pagati e a caro prezzo. Sono infatti 562 mila le baby pensioni attive, secondo uno studio condotto dalla CGIA di Mestre. Di queste, oltre 386 mila sono costituite da invalidi o ex dipendenti delle grandi aziende. Se i primi hanno tratto beneficio da una normativa alquanto favorevole, i secondi hanno sfruttato i trattamenti in uscita dal mondo del lavoro decisamente generosi. In più ci sono 105 mila ex lavoratori autonomi e circa 40 mila ex dipendenti pubblici per cui le misure sono state ancora più vantaggiose. Totale: un conto da 7 miliardi di euro che lo Stato si ritrova a pagare ogni anno. 

Il vero problema

Il meccanismo delle baby pensioni era fondato sul metodo retributivo. Dunque il problema non consisteva tanto nel pensionamento anticipato, quanto nell’entità dell’assegno che non trovava alcuna corrispondenza rispetto al monte contributivo versato. Il resto lo doveva mettere lo Stato.